MISURATA MISURA
Michele Brancale non suppone mai che il verso possa esaltarsi nel patetico, disciogliersi nel sentimentale, né urlare rabbioso al lettore: il suo incedere dipende tanto dal sangue delle celate passioni quanto dalla lenta depurazione operata dal suo bagaglio mentale, scansando anche ogni civetteria della sincerità sapendo, come sa, che non si può risolvere il discorso poetico col semplice e indubitabile motivo della sincerità… Quando è chiuso in un unico pensiero
Chiude la porta. Si abbandona, molto;
sembra che si immerga, per un sentiero,
nel sole e invece si oscura nel volto.
Perché poi si affidi così è un mistero
Che toglie suono alla città, che stolto
Rende il tempo. Ruggine sui cardini
Ruota su di sé, solo, senza argini. Questa ottava, la seconda della prima pagina del suo libro, La Fontana d’acciaio, ha suscitato una prima impressione di lettura riferita all'uomo libero e al poeta che comprende i propri condizionamenti storici e culturali ponendosi la domanda fino a che punto l'Io possa svincolarsi dal contesto e, allo stesso tempo, evitare l'impantanamento nel soliloquio: pare trovarsi, o ritrovarsi disteso nell’acqua calma di un mare, distante dal chiassoso vocio della riva e lontano dall’invadenza di onde anomale assai frequenti allontanandosi da riva. E in questa rilassante posizione fluttuare ascoltando il Canto del Tempo, del Suo Tempo, contenuto nelle Stanze, equilibrate come il movimento di un pendolo che si fa sentire ma non infastidisce al contrario di molti moderni rumori, di molta recente poesia che inveisce al lettore intimando partecipazione e non ricercandola; e che in ogni cantore assume tonalità diverse ma nella generale asprezza stimolata se non suggerita dal vivere in contesti di violenza della parola, forse unica forma di aggressione in società sterilizzate da altre forme di naturale violenza. La calma discrezione, mai velata di toni accesi, dell’uomo Brancale si traduce invece nella pacata, ma non arresa, distensione dei suoi versi, delle ottave, delle cinque stanze in cui si concretizza questo gradevole libro che a detta dell’autore è il compendio di riflessioni poetiche pluriennali tradottesi infine in questo compatto testo simile allo scorrere sicuro delle acque nell’alveo di un fiume nel quale borri, fossi e torrenti di diversa provenienza “temporale” (anche nel senso di precipitazioni), confluiscono serenamente nel flusso della poesia di Brancale, precisa e netta nei toni, ma lieve e delicata nella devozione al suo orizzonte poetico come un salterio medievale. Il grigiore stanco dei giorni scorsi
Sparito – chissà? – nei passi per strada
Trovando tanti altri, in cammino a porsi
La stessa domanda. Ma ovunque vada
La risposta non s’impone a discorsi,
a corsa di parole. Si dirada
la voglia di lamento. Stare, stare,
tra gente vulnerabile: sognare. Anche in questi versi, tagliati con la perfezione di una lama diamantata, traspare l’esatto pigmento della vena poetica, mai umida dei sudori ammiccanti al frastuono delle contese che spesso si fanno aggressive assorbendo i valori della conflittuale prepotenza della parola. E non mi pare, come da altre parti si è scritto, che questo testo contenga elementi metallici, o tatuaggi irreversibili, così come i corpi di molti adolescenti, tipici di una certa poesia contemporanea che nella uniformità dei toni (ipertestualità, metalinguaggio e altro se volete) fallisce l’individualità caratteriale della poesia, l’estraneità a qualunque appartenenza. Né è possibile, e non ne vedo l’opportunità, collocare l’opera nelle tassonomie di recenti anni tese più ad inquadrare “generazionalmente” (quarta, quinta, sesta generazione, come prodotti di un allevamento di ovini), piuttosto che sopportare il dilemma critico che ogni poesia fa firmamento a sé stessa nell’universo infinito dell’espressione poetica. Difficile quindi per la poesia del Brancale il ricorso a modelli e alle comode ascendenze di Maestri, tipici atteggiamenti di un retaggio critico condizionato da troppa, inopportuna sociologia e dalla cintura di castità di uno strutturalismo che ha abbagliato nel tentativo, mai certo, di spiegare se stesso, pur nella pretenziosa autorevolezza nella compilazione di tassonomie gerarchiche della Poesia di anni recenti. Semmai si direbbe, specie nella quarta stanza dal titolo All’esistente-inesistente, quasi un poemetto autonomo nell’economia del libro per quanto mai disperso dal resto, che l’autore abbia sentito il dovere, la necessità di improvvisi stacchi dal coro dell’eleganza formale, filtrante nitida dai sereni versi, irrompendo sulla scena con rotture lessicali e sintattiche più, credo, per emergenze individuali mitigate dalla padronanza del segno, senza eccessi drammatici, che per un senso di appartenenza o peggio di omologazione al suo tempo; ma in questo già il titolo di questa parte, con la sua raggelante ipotesi, persuade sui veri intendimenti di Brancale. Una voce insomma, quella di Michele Brancale, nitida nella sua autonomia e nella certezza formale mai aggiogata a contingenze chiassose tese più a far breccia per i toni che non per il significante: La gomena tiene ferma la nave. Sull’ancora le aderenze di fuco E diatomee. Da un accenno lieve Di ponente, l’avvisaglia – deduco – Di giorni nuovi. Desiderio muto Della partenza. Si riscalda a un gioco Di ricordi e attesa il diamante acuto. Sfiorò il gorgo. Sogna sabbia e coralli, rossi e al buio, sul fondo di velluto. Qui in una delle ultime pagine del libro, che rimanda con accenni leggeri ancorché evidenti ad un epica ormai accecata (senza alcun riferimento all’omerico Polifemo) dal dominio dell’immagine in cui tutto si fa immediatezza nell’aridità della comunicazione, alla quale provvidenzialmente soccorre una certa letteratura, una certa poesia, come quella di Michele Brancale che richiama senza retorica ai canti al fuoco del passato. Paolo Codazzi
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