Vennero a prendermi di notte gli occhi doloranti al neon e alla valigia pronta alla porta. Il resto della mia infanzia tutto a posto, archiviato... salvo un giornaletto sul comodino. Non riuscivo a guardare la mamma, stropicciavo gli occhi simulando sonno e il muto grido forzando i vetri percossi dal treno si confuse nel cotone nebbioso della periferia bassa e buia cristallizzandosi nell'aria livida; poi si frantumò nel nulla sciogliendosi in putride pozze.
Uscimmo di casa muti come fantasmi mentre il giorno ritrovava i profili amati e odiati delle case, i rami scarni dei giardini, le prime mattiniere biciclette. La città fuggì immobile con le sue lacrime sincere accese oltre le persiane deteriorate baluginanti nella nebbia. Volava l'auto neroverde tra i prati abituali ed immobili palloni saltavano nei miei pensieri miscelandosi con il rossoverdegiallo dei crocevia. I primi frettolosi passanti volgevano curiosi il cappello, dovevano sapere... li riconobbi tutti ed avrei voluto gridar loro: Fermatemi! Non voglio partire!
Finalmente il treno ringhiò nella nebbia che inghiotti la mamma: sola in una folla invisibile e scontrosa... chissà quanto rimase con la mano tesa in saluto. Appena seduto mi staccai dall'uomo, avrei voluto piangere... ma il dolore si solveva con le prime parole: vedrai bello il mare, e quanti ragazzi come te sono ad attenderti... pensa abbiamo anche la televisione! Allora pensai alla mamma alle soste che la riportavano a casa: una casa per un anno vuota.
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