Non ricordo come mi spinse ad aderire all’azione promossa da Fulvio che trovava, oltre a me, un terzo partecipante. Probabilmente fu l’abitudine, rafforzatasi nel tempo fino a divenire vizio, di stare sempre con i meno, con i deboli, con gli emarginati. E più riuscivo ad analizzare autonomamente i fatti della vita, più questa tendenza si rafforzava; soprattutto, credo, per effetto della mia condizione sociale o meglio, della condizione della mia famiglia. Ecco come quell’idea di Fulvio: scappare dalla colonia e raggiungere il fortino al limite della pineta, circa un chilometro dall’edificio dove eravamo alloggiati, e trascorrervi una notte per protesta a quello che ci avevano imposto, discriminandoci dagli altri bambini, mi parve buona, se non altro coerente, appunto, con la mia condizione. Fulvio era già molto quadrato, eludendo i suoi tredici anni, esprimeva una robusta educazione, direi socializzata, trasmessagli dal padre, un comunistaccio, di quelli che avrebbero bruciato le chiese. Il padre gli aveva insegnato che vivere entro equilibri, quali quelli della società di allora, eravamo nel 1956, significava per chi non aveva altro sostentamento che il lavoro, e con ciò il desiderio di farne forza trainante della comunità, subire le persecuzioni più assurde e le umiliazioni più cocenti. Io avevo già servito la Messa, parecchie volte anche, quasi tutte le domeniche dalla prima comunione: d’inverno con il gelo e d’estate con l’afa; in una chiesetta vicino casa: un convento di Suore di Clausura. Andavo volentieri, principalmente perché dopo la funzione mi davano un’abbondante colazione con latte e cioccolata permettendomi, per il resto della mattinata, di giocare nel parco proprietà del convento. Quindi per me, obbedire all’ordine della direttrice, non avrebbe richiesto nessun particolare sacrificio anzi, data la profonda educazione religiosa (sintetizzata in ogni caso in un intimo senso di colpa di fronte ad ogni atto della vita) che la famiglia mi aveva trasmesso, l’unica forma di educazione che fossero capaci di dare, servire la Messa alla colonia poteva anche essere motivo di soddisfazione. Però il richiamo dei due, al confronto con gli altri ottanta ragazzi della provvisoria comunità, fu irresistibile: mi trovai subito d’accordo per fuggire al fortino. Lionello non so perché lo fece, lui non era neanche stato interpellato per servire la Messa, il colore della sua pelle poco si addiceva ad una funzione tanto importante. Figlio di una livornese e di un americano d’occupazione, la sua pelle aveva risentito, conformemente a tutta la nazione, dal brusco contatto con quella che, allora, veniva definita miracolosa civiltà. Anche la sua era una protesta, diversa, opposta alla nostra, ma anch’essa una protesta. Più che unirsi a noi di spontanea volontà, fummo noi a convincerlo mentre zitto stava in disparte. |