Paolo Codazzi scrive poesia rapportandola, in modo analogico, al proprio composito fronte culturale e politico in cui davvero poco spazio ha l'elegia del privato. Scevro da qualsiasi presa diretta col reale Codazzi sa che la verità, e dunque l'incidenza del discorso, passano attraverso il recupero di un tempo molteplice documentato dal proprio sangue ma anche da papiri e protocolli, da diari e, al limite, da digitazioni dell'imprevisto. Quest'ultima raccolta, L'inventore del semaforo, ci offre il Codazzi della maturità, capace di uscire dall'incorniciatura dell'equazione nuova poesia=poesia+contaminazioni prosastiche. Ora il suo discorso è più teso e disteso, volendo appunto restituirci di sé un quadro completo commisurante la "scienza" di una generazione, la quinta, che sta al momento trovando alcune sue faticose verità. Codazzi parte dalla stagione in cui fu fondata questa civiltà, con caratteristiche culturali ben definite ed ancorate globalmente alla dimensione romantica, per puntualizzare il rapporto tra legge e flusso, fra rivoluzione ed evoluzione. E' dunque, il suo, un discorso che fa rivivere al presente, con acribia "bibliografica", i protagonisti della Rivoluzione francese, come se uscissero da pagine di un diario scritte di fresco fra l'essere e l'agire; per continuare, con mosso respiro creativo, a disegnare il flusso, il movimento (con evidente riferimento al "viaggio" storico) fino al se stesso, al presente, all'imperfetto trasformarsi dell'uomo nel tempo. Ed è a questo punto che Codazzi apre sul panorama delle proprie mediate verità che tornano a ritroso, ma sperimentalmente, fino all'esatta misura "greca" dell'uomo mediterraneo, o ad un'immagine di sé stupita di fronte alle cose. Si tratta si una scrittura poematica, per registri, in cui è evidente un amore stilistico per le rapide-sapide sospensioni di quell'ala dell'avanguardia che negli anni Sessanta definivamo ideologica (Pagliarani, Majorino, per intenderci), né mancano tuttavia le interruzioni tipicamente sanguinetiane. Ma, a dire il vero, non mi soffermerei più di tanto su questi riferimenti per apprezzare maggiormente la capacità, che ha Codazzi, di tradurre in notazione culturale ed anche politica il proprio "vissuto" inteso come condizione ampia, sociale. Tanto per evitare fraintesi, ripeto che con questo il corpus codazziano rinuncia ad ogni spontaneità, ad ogni soluzione epico-lirico-diaristica per risolversi invece in un confronto largo col contesto culturale ed in un blocco linguistico frastagliato ma non accidentale o, peggio, accidentato. Da qui, si comprende, il riferimento all'avanguardia ci pare più un rimando alla propria crescita di poeta e non una modellazione al presente, chè anzi è ancora vivo, in queste pagine, l'aspetto drammaturgico/gnomico così caro al poeta nelle precedenti raccolte. Solo che oggi, finalmente, con L'inventore del semaforo, Codazzi, ci ha dato un libro compiuto ed assai utile, a metà degli anni '80, per una generazione molto disarticolata. E' il lavoro culturale e creativo dalla giovinezza alla maturità, così ricco di orditi, che Codazzi è riuscito a saldare come messaggio illuminante per una ricerca da rapportare all'uomo. |