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  I MIEI LIBRI - CATERINA
  Dal 1° capitolo...             

« Il plot »

« La lunga e illustre carriera del romanzo inglese », cominciò il Conte, « inizia in un lindo e ombreggiato parco del sobborgo londinese di Hammersmith dove un certo Samuel Richardson, omone corpulento e alquanto sussiegoso, non lontano dalla cinquantina, tiene banco davanti a un gruppetto di giovani donne che gli siedono intorno in atteggiamento di adorazione. L’insieme è assai rispettabile. Le fanciulle guardano Samuel come si guarda un papà saggio e gentile, con il quale si possono discutere faccende di cui in genere i propri padri carnali vengono tenuti all’oscuro: emozioni di cuore per esempio. Richardson distribuisce buoni consigli e si assume addirittura il compito di dettare le lettere delle ragazze, messaggi ai loro spasimanti, dove le sottigliezze richieste ad un corteggiamento settecentesco sono colte con una precisione certamente estranea alla prosa delle ragazze.

In precedenza non è che Richardson abbia avuto occasione di scrivere molto, oltre alla propria corrispondenza commerciale e qualche brano promozionale per la propria casa editrice ed a un curioso libretto intitolato Il vademecum dell’apprendista nel quale ha dispensato saggi consigli su questioni di morale e di commercio ai giovani ansiosi di farsi strada, com’era stato il caso dello stesso autore, nel mondo mercantile…»
« La motocicletta », lessi in una pagina del diario apertosi cadendo, « da sempre mio impossibile amore. Percorrere la notte su una vecchia Mondial dal motore orecchiabile, il suo sorriso cristallizzato dal vento mordermi dolcemente il collo… L’animale sociale, scegliendo un colore, la prima cosa che gli viene in mente è di giustificare la selezione con il possibile abbinamento cromatico agli altri…»

Tuffando la testa per raccogliere il diario, osservai la selva di gambe, di scarpe: inutili accessori di un artropode leviatano. Al contrario di quando, circa a otto anni, mi nascosi nella galleria della gradinata in tubolari rivestita di assi di legno, allestita nella piazza del mio quartiere per l’occasione di una gara ciclistica. Malgrado ci fosse gran gente potevo individuare chiunque dai pantaloni indossati o dalle calze di seta smagliate; dalle scarpe, dai calzini, tanto che levai una scarpa, dopo aver sbirciato il gran segreto tra le cosce, alla madre di un mio coetaneo, trascurando la fumante ghiacciaia dei gelati lasciata incustodita e per la quale mi ero avventurato nella galleria. Vedere il mondo alla rovescia, le scarpe del mondo, mi lasciò una soddisfazione indefinibile, la consapevolezza di un potere che da adulto, rinvangando come in quel momento, non riesco a spiegare; né capire.

« Ora però Richardson ha intrapreso la composizione di un libro di lettere formali per ogni occasione; ed è un volume che si aspetta di vendere con buon profitto. Una di queste lettere è indirizzata da uno zio al nipote, a proposito delle cattive compagnie, delle ore piccole ed altro di questi durante il suo apprendistato. Gli zii che avessero avuto un nipote apprendista sulla cattiva strada non dovevano far altro che copiare la lettera di Richardson, inserendo i nomi opportuni, e star sicuri che il messaggio sarebbe giunto a destinazione saggio, efficace e perché no: anche elegante.
La lettera n. 138 è da un padre alla figlia a servizio, avendo appreso che il padrone attenta alla sua virtù. Mentre la componeva a Richardson tornò in mente un caso autentico di cui era venuto a conoscenza qualche tempo prima, di una domestica che aveva resistito alle profferte del padroncino. Ed ecco balenargli la possibilità di narrare in tutti i particolari la storia della servetta mediante una serie di lettere, per esempio tra la ragazza e i genitori lontani e in pena. Il libro così ottenuto sarebbe stato istruttivo e divertente, non soltanto per le signorine, ma per tutti i giovani, dovunque si trovassero alle prese con problemi di amore e moralità.
In capo a tre mesi la storia, Pamela, era scritta…»

Qualcuno mi chiamò. Sull’ingresso della sala, irrorata dalle parole amplificate, vidi Cesare. Mi alzai verso lui che uscì attendendomi nel corridoi per il saluto (e ricordai la sua lapidaria, laconica definizione a chiusura di un ottimo saggio sullo spirito romantico e sul romanticismo: «le persone colte della Francia del XVIII sec. apprezzavano molto quella che chiamavano sensibilità, che significa sottomissione al sentimento, sentimento violento e diretto e del tutto indipendente dalla ragione e dal’intelletto. L’uomo sensibile è spinto alle lacrime dalla miseria ma resta freddo di fronte ai progetti elaborati per migliorare la condizione umana»).

- Conosci il Conte? – chiese porgendomi la mano.

- Non personalmente, ho udito encomiarlo. Questa dissertazione sul romanzo inglese mi pare di tutto interesse. Come stai?

- Cesare esitò, o forse fui io a suggerirli la pausa distraendomi per un’ultima frase del Conte che afferrai nitidamente dal confuso brusio della disattenzione: « e Laurence Sterne l’autore di Trstam Shandy, capolavoro datato di un eccentrico ecclesiastico irlandese…»

- Un poco stanco del viaggio, - richiamò bruscamente l’attenzione: - venire in treno da Roma non è tragitto dei più agevoli. Per il resto tutto bene…, a parte i soliti piccoli problemi che conosci…

- Da due robusti tronchi si ramificavano i problemi che Cesare, con ingenuo e malizioso coraggio, reputava piccoli. Alcuni di natura economica, retaggio dello stipendio di un insegnante di scuole medie inferiori: costringendolo a lievitare l’attività letteraria per procurarsi un reddito aggiuntivo; mortificando spesso la credibilità puntigliosamente raggiunto con rigoroso impegno. Gli altri avevano una matrice sentimentale, per un matrimonio scivolato tra le insidie di freatiche incomprensioni con una donna abituata a far vetrina della propria vita, manichino del proprio compagno. Divorzio che lo aveva traumatizzato fino all’impotenza da che, estremizzando, trincerando nella propria visione dell’esistenza, ogni tentativo di contrattare soluzioni di convivenza, seppure transitorie. Si era irriducibilmente isolato in sorda solitudine che scavava la sua personalità come un tarlo; rendendolo scontroso, maniacale, nevrotico: certo non l’equilibrato letterato che avevo conosciuto anni prima…


 
  Dalla prefazione di Marco Marchi             

L'attendibilità letteraria di un testo come Caterina si svolge tutta tra l'esigenza di un progetto che sovrintenda a minutamente accompagni l'opera nel suo farsi e il suo ritornante, inesorabile decadimento.

E' un gioco complesso e intrigante, piacevole e persino autolesionistico.
L'autore stesso si presta in partenza a confondere i propri lineamenti con quelli del personaggio protagonista (un eroicomico scrittore quarantenne còlto in chiave sociologica sull'orlo del riconoscimento ufficiale), per poi ritrovarlo (ritrovarsi) trattato come è trattato. Di più: in senso narratologico pieno Codazzi costruisce distruggendo. Il suo narrare si rinnega e si eccita, il suo progetto subito si rifrange nelle mille facce di un prisma possibilistico che induce a movimenti incoativi, che livella dispersioni e ciclici ritorni, che svaria ma non tollera inerzie. !...!

Alle trame attese e alle esemplarità pedagogiche subentrano le prospettive di un romanzo inclusivo e potenzialmente inesauribile che mira a realizzare, tramite un appassionato recupero di incidenze, la "storia delle storie". !...!
L'opera, !...! come infinito procèdè: forse l'allegoria involontaria di un piccolo dio della Genesi, o un incalco della rivolta. O l'ennesimo miraggio - uno fra i tanti - di caterina.


Dalla prefazione di Marco Marchi


 
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